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Trump e i Talebani


Alberto Pasolini Zanelli

Donald Trump sta riuscendo a scrivere un successo sulla lavagna della sua presidenza. Forse un mezzo successo, ma comunque prezioso in queste giornate convulse. Questo presidente che parla spesso in toni guerreschi ha finora avuto più fortuna quando si è dedicato ai bisbigli di pace. Questa volta, in silenzio mentre i suoi collaboratori si davano da fare, ha potuto far sapere di essere arrivato a un accordo con la controparte: i talebani. Dopo diciotto anni di guerra gli Stati Uniti sono arrivati alla soglia di una stanza dove si firmano i trattati di pace. Un armistizio che è un patto, che sarà firmato in qualche salone dai rappresentanti del governo della Superpotenza e di una organizzazione integralista e ufficialmente registrata a Washington come terroristica, scavalcando o tenendo ancora in sala d’attesa quelli del governo legittimo di Kabul, appoggiato, armato e finanziato dagli Stati Uniti.

I protagonisti di questo finale non ortodosso, cioè i “soldati” americani, dell’esercito afghano e della versione afghana dell’Isis, si stanno ancora combattendo in queste ore in qualche angolo disperso di un grande Paese di montagne. Il corpo di spedizione Usa non se ne andrà subito: dovrà aspettare una firma ufficiale. I soldati sul campo ne saranno lieti, i generali no. Da tempo essi invitano la Casa Bianca ad andarci piano (non c’è fretta a concludere una guerra che ha compiuto diciotto anni) e a non fidarsi troppo dei contraenti. La loro specialità oggi sono gli attentati che è difficile scongiurare con dell’inchiostro su una carta. Quasi ogni giorno ci sono tuttora degli scontri e dei morti, soldati afghani, talebani e Usa. I militari sul campo sono più espliciti di quelli che abitano a Washington. Essi ricordano e menzionano di più la Storia. Gli americani in Afghanistan ci sono entrati in prima persona subito dopo la strage terroristica a New York dell’11 settembre 2001, preparata e ordinata da Osama Bin Laden nella sua residenza in Afghanistan, dove c’era un governo integralista che aveva conquistato il potere con le armi prevalendo a un governo “moderato e laico” appoggiato dagli Stati Uniti. Anzi, da essi creato dopo la vittoria degli integralisti (che non si chiamavano ancora talebani) contro un regime appoggiato dall’Unione Sovietica, che aveva mandato soldati e carri armati, “ispirando” l’America, che mandò allora soldati ma armi modernissime. I russi ebbero tante perdite che si finirono con il ritirarsi. Il primo reparto tornò a casa esattamente il giorno in cui Ronald Reagan “sbarcò” a Mosca per fraternizzare con Mikhail Gorbaciov: i due affossatori della Guerra Fredda. In un palazzo di Mosca, in quei giorni, era aperta una mostra sulle distruzioni e i lutti della guerra afghana, con molti visitatori davanti alle fotografie spesso crudeli dei cadaveri, dei feriti, dei mutilati. A Kabul qualcuno festeggiava, ma non durò, spariti i russi arrivarono i talebani e Bin Laden loro ospite. Gli americani dovettero intervenire in prima persona, vinsero sul campo (ma mai interamente) e riportarono al potere i moderati, almeno nella capitale. In varie “province” del Paese gli integralisti sono rimasti fino a oggi, più o meno forti a seconda della colorazione etnica. A Kabul si perfezionavano le istituzioni e si modificavano i governi. Fra le montagne si combatteva e si bombardava. A Washington si accumulava da tempo la stanchezza e la tentazione di un armistizio, incoraggiata dalle più famose vicende in Irak e in Siria. I talebani sono, fra l’altro, nazionalisti e non hanno mai inteso essere inglobati nel califfato dell’Isis, adesso quasi ovunque in declino. Non tanto da consentirgli trattative con Washington, ma abbastanza per sdrammatizzare un po’ le tensioni nel “più grande Medio Oriente”. L’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump avrebbe dovuto, secondo i più, rilanciare l’impegno militare anche in Afghanistan. È accaduto il contrario, ma ormai non è più una sorpresa: è imminente un nuovo incontro tra Trump e Kim Jong-un, dittatore comunista con ambizioni nucleari. L’Afghanistan è un altro mondo. C’è un governo più o meno democratico e un presidente che è stato tagliato fuori dalle trattative e dall’armistizio, Ashraf Ghani. Che ricorda bene la vicenda di un suo predecessore, Mohammad Najibullah. Anche lui “fece la pace” con i talebani nel 1992. Questi ultimi conquistarono Kabul quattro anni dopo. Najibullah si rifugiò in un edificio dell’Onu, lo tirarono fuori e lo impiccarono a un lampione.