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Paura o rabbia


Alberto Pasolini Zanelli

Da poco più di ventiquattro ore l’America, anche quella che si interessa poco di politica, è presa alla gola dalla paura o dalla rabbia. È la prima volta che questo Paese, soprattutto da quando – ed è tanto tempo – è diventato la Superpotenza, si trova confrontato con una crisi che non è più soltanto di linea politica o di onestà personale del suo leader, bensì dallo spettacolo del suo leader incolpato di quello che sarebbe un crimine di lesa patria. In caso contrario, tuttora il più probabile, gli Stati Uniti si vedrebbero smascherati in una crisi istituzionale. Senza precedenti. Viene a cadere anche il paragone invocato con più frequenza dagli accusatori: la vicenda che condusse nel 1974 all’impeachment del presidente Nixon. Quello era stato accusato probabilmente a ragione, di aver detto bugie nel difendersi da accuse di secondo o terzo rango. Questo suo successore è già, perfino da prima di essere eletto, un catalogo di sospetti e colpe da riempire un volume. Alcune accuse sono politiche e, a parte la scelta insolita dei vocaboli, lecite e “costituzionali”: dalla insistenza sul progetto di costruire un muro gigantesco alla frontiera col Messico per regolare o impedire l’afflusso di immigranti illegali; una contesa che ha portato a conseguenze praticamente inaudite come la “chiusura del governo” (da parte di Trump) e la conseguente paralisi di molte attività anche necessarie e urgenti e alla “scomparsa” da quasi un mese ormai degli stipendi di gran parte degli impiegati federali (l’equivalente degli statali nei Paesi europei).

Questo scontro è però fra la Casa Bianca e il Congresso e quindi rientra nella dialettica politica e potrebbe essere bilanciata dalle notizie persistentemente buone sull’andamento dell’economia nazionale. Con una “scorta” di altre polemiche in buona parte fondate su gesti e parole da parte di Trump difficilmente spiegabili e sovente contraddittorie. In questi angoli Trump è spesso sospinto e alcuni di questi potrebbero innescare il meccanismo dell’impeachment o addirittura costringerlo alle dimissioni.

Ma tutte queste “battaglie” scompaiono di fronte alla “guerra totale” che scaturisce da un’accusa: quella di aver, già durante la campagna elettorale ma anche in due anni di potere alla Casa Bianca, “trescato” con l’altra “superpotenza” del pianeta e personalmente con il suo leader Vladimir Putin più volte sospettato e accusato di azioni illegali per cui il suo Paese è stato ed è tuttora oggetto di rappresaglie soprattutto economiche ma anche di accresciute pressioni militari, decretate in gran parte dagli Stati Uniti. Che un esponente di una Potenza agisca in modo difforme o contrastante con la politica condotta e proclamata dal proprio Paese può ancora accadere, anche se di rado. Ma che sia il capo dello Stato, che ha più poteri e dunque doveri di qualsiasi primo ministro in altri Paesi e che è l’uomo più potente del pianeta è accusa davvero senza precedenti e di scarsa credibilità. Trump non è “innocente”: ha preso più di una decisione di discutibile legalità costituzionale (nella maggioranza dei casi poi ritirandole o cancellandole), ma soprattutto ha compiuto o proclamato scelte avversate dal Congresso ma anche e soprattutto da centri di potere. Il penultimo esempio è il suo ordine alle truppe americane di ritirarsi dalla Siria, dove si trovano da anni e dove hanno contribuito alla sconfitta del regime dell’Isis. C’è chi approva ma c’è soprattutto chi protesta, apertamente nei ranghi dello Stato maggiore (cui Trump ha concesso un rinvio di qualche mese) e dall’opposizione politica incentrata sul Partito democratico ma includendo la dissidenza di molti esponenti repubblicani ma anche di centri di potere economico, dalla gestione del petrolio mediorientale alle pressioni di quel complesso “militare-industriale” già denunciato e deprecato dal presidente Eisenhower, il “generalissimo” vincitore della Seconda guerra mondiale.

Ma le accuse oggi rilanciate superano ogni precedente. A Trump si rinfaccia la frequenza dei suoi colloqui col presidente russo Vladimir Putin e il “segreto” avvolto in alcuni fra questi, elencati da quotidiani del prestigio come il New York Times, quattro lettere personali e un numero di colloqui telefonici. Essendo segreti, nemmeno gli accusatori sono in grado di specificare che cosa i due leader si siano detti, ma una certa credibilità nell’accusa c’è, data anche la scarsa armonia fra il presidente e molti fra gli esponenti del governo che hanno portato a una insolita frequenza di nomine, dimissioni e licenziamenti.

Ma la spinta decisiva a questa nuova offensiva è stata, come tante altre, l’espressione semipubblica del presidente di una sua intenzione di fare uscire gli Stati Uniti dalla Nato. Secondo l’accusa questo progetto sarebbe stato in qualche modo concordato con Putin. Con ogni probabilità si tratta di un’esagerazione. Quello che è credibile è il progetto di Trump, molto discusso, non solo a Washington ma anche nelle capitali dei Paesi alleati, anche perché motivato da conteggi in dollari. Da tempo, anche prima della sua elezione, egli ha lamentato e contestato una sufficiente partecipazione finanziaria degli altri “soci” dell’Alleanza Atlantica in rapporto con quello che essa costa agli Usa. Discorso non elegante e neppure opportuno, ma pur sempre una proposta trattabile. Quello che solleva una vera e propria ribellione è specificatamente americano: è una diversa concezione dell’Alleanza Atlantica. Essa fu gestita per mezzo secolo e con straordinario successo come “fortezza” contro il pericolo rappresentato dall’Unione Sovietica e dal suo imperialismo ideologico. Questa fase della storia, chiamata Guerra Fredda, si è conclusa con il totale successo della comunità dei Paesi democratici guidata da Washington. L’Unione Sovietica non si è ritirata da Paesi conquistati: è scomparsa con una stretta di mano fra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov. Al suo posto è rinata la Russia, senza più il comunismo e senza satelliti. Ancora una grossa potenza, ma non più una superpotenza. A questa nuova Storia Trump mostra di credere anche perché ciò gli consentirebbe vantaggi per l’America, economici e anche per un ruolo di superpotenza unica. L’opposizione interna respinge questa valutazione e sollecita una continuità di intransigenza. Contro tale valutazione punta un’opposizione senza frontiere. Agevolata dall’intransigenza e “imprevedibilità” di questo presidente in tanti altri campi. Magari esaminati in qualche colloquio “segreto” con l’uomo del Cremlino.