Alberto Pasolini Zanelli
È stata una lunga polemica, una
battaglia che ormai era data per senza uno sbocco. Invece è finita, per adesso,
in poche ore, con uno scontro più aperto ancora del solito e con un vincitore,
non si sa per quanto, ma oggi come oggi netto: Donald Trump. La Casa Bianca ha
piegato il Congresso e adesso potrà far partire, in qualche modo e in dubbia
misura, il suo “progetto Muro” che molti si erano recentemente convinti che
fosse un sogno. Due anni di polemiche tre o quattro ore in una giornata. Un confronto
fra due centri decisionali nella capitale americana che si sono confrontati in
una “mano” finale di poker. Un po’ particolare, perché formalmente hanno vinto
entrambi. Trump voleva ad ogni costo un gigantesco muro che collegasse i due
oceani alla frontiera fra gli Usa e il Messico. La maggioranza del Congresso
era contraria con varie motivazioni, prevalente tra le quali era quella
finanziaria. Poco più di un mese fa c’era stata la prima prova di forza
ufficiale ed era finita in “pareggio” formale ma con danni per tutti. Per
trentacinque giorni il governo americano si era autoparalizzato, con
conseguenze pesanti per l’economia e senza risolvere il problema. Poi è
arrivato il secondo round che pareva destinato ad essere ancora più lungo e
dispersivo. La Casa Bianca continuava ad insistere per un “sì”, il resto del
mondo politico per un “no”. La promessa di Trump era sempre quella: un muro per
tenere fuori gli immigrati sgradevoli, le opposizioni un rifiuto egualmente
assoluto. Nelle aule del Congresso repubblicani e democratici duellavano pur
sperando il non compromesso in extremis.
Dalla Casa Bianca continuavano a
venire veti, almeno nella forma, anche nei punti in cui si delineavano
concessioni. La partita era fra bocciatura integrala del progetto e legislatura
di emergenza che imponesse la volontà dell’esecutivo. Due “super armi” che sono
state sparate quasi nelle stesse ore: il Congresso ha approvato massicci
investimenti per scongiurare una seconda paralisi governativa, Trump ha proclamato
lo stesso la sua legislazione di emergenza. Senato e Camera hanno finito con il
registrare entrambe le decisioni contrastanti, grazie anche alla defezione di
alcuni senatori repubblicani che si sono uniti alla quasi compatta schiera dei
democratici. Il testo prevede uno stanziamento di 333 miliardi di dollari, che
però è meno di un quarto della somma che Trump da tempo andava pretendendo per
il suo Muro. La Camera ha approvato il testo con 300 voti contro 128, il Senato
con 83 voti contro 16. Il testo contiene l’impegno a lasciare “aperto” il
governo, almeno fino al 30 settembre. Il presidente ha promesso di apporre la
sua firma, ma dopo avere annunciato che comunque egli dichiarerà una “emergenza
nazionale” che gli consenta di procurarsi stanziamenti molto maggiori per il suo
progetto. I costituzionalisti hanno capito subito chi ha vinto in questa prova
di forza: avevano sperato fino all’ultimo in un compromesso più efficace nel
porre limiti alle ambizioni della Casa Bianca, ma solo fino a una certa ora,
allorché l’equilibrio si è incrinato. Un senatore ha riassunto così l’esito: “Abbiamo
pensato tutta la mattina che le cose andassero bene, poi improvvisamente l’intero
convoglio ha deragliato”. Il momento decisivo è stato forse quando è diventato
chiaro che Trump ha il potere di ripescare una clausola dei suoi poteri
raramente usata per prevalere sul diritto costituzionale del Congresso a
decidere sui problemi finanziari. La clausola esclude che le Camere abbiano il
potere di impedire al presidente di proclamare le emergenze.
La Costituzione lascia ancora dubbi:
la possibilità di due “emergenze” contrastanti, ma ciò è improbabile dal
momento che il Congresso per prevalere sulla Casa Bianca avrebbe bisogno di
votazioni con una maggioranza dei due terzi, molto difficile da raggiungere
alla Camera a maggioranza democratica e praticamente impossibile al Senato,
dove c’è una lieve maggioranza repubblicana, che può essere erosa ma non in
misura sufficiente. C’è chi vuole ricorrere, adesso, alla Corte costituzionale
per far dichiarare illecita una violazione della “separazione dei poteri”, ma
rimane sul tavolo il diritto di veto del presidente. L’indignazione c’è ma non
è abbastanza “armata”. “Immaginate – ha detto un senatore democratico – come avrebbero
reagito i repubblicani se il presidente Obama avesse fatto ricorso a una misura
del genere. Ma a questa ipotesi si contrappone l’esperienza dei modi e dei
metodi di un presidente fin troppo sicuro di sé come Trump, che ha saputo forgiare
un equilibrio che temporaneamente paralizza le Camere e non solo l’opposizione”.