Alberto Pasolini Zanelli
Il più atteso e contestato discorso
sullo Stato dell’Unione ha in parte deluso coloro che avevano scommesso che l’occasione
sarebbe stata sfruttata per accendere nuove battaglie fra il più discusso
presidente repubblicano e la più mordace opposizione democratica. Altri si
aspettavano di vedere un Trump tutto sulla difensiva.
È accaduto in gran parte il contrario:
questo presidente non ha offerto al Congresso riunito progetti nuovi né nuovi
argomenti polemici. Si è limitato a difendere il proprio potere e la propria
gloria respingendo anche duramente le critiche, ma senza lanciare progetti
nuovi che avrebbero surriscaldato ulteriormente l’atmosfera. Ha giocato in
difesa, ma duramente, prediligendo argomenti scontati e ormai ovvii e riscaldando
vecchie polemiche ideologiche. Il suo discorso, così, ha contenuto poche novità,
pur avendo oscillato fra appelli all’unità nazionale e la ferma convinzione che
essi non servirebbero. Trump ha molte debolezze, ma non è un ingenuo: ha capito
presto e bene (più presto che bene) che gli americani si sono formati da tempo
salde opinioni e sentimenti nei suoi riguardi: chi lo ama continua ad amarlo e
così chi lo detesta. Se si votasse domani mattina, molto probabilmente il
risultato sarebbe opposto a quello del novembre di due anni fa, allorché egli
vinse di poco. Questa volta di poco perderebbe. La continua, ansiosa ricerca di
dati per fotografare numericamente gli umori del Paese non ha prodotto in due
anni mutamenti di rilievo. La popolarità di Trump, certo, è diminuita ma sembra
abbia smesso di diminuire ulteriormente. I dati dei polls continuano da tempo a
“fotografarlo” sullo sfondo di un 40 per cento di approvazione, stabile in
entrambe le direzioni. I democratici mantengono la loro attuale maggioranza,
emersa un anno fa grazie soprattutto a un massiccio voto femminile, decisivo
per rovesciare la maggioranza alla Camera e incarnato nella figura di Nancy Pelosi,
ritornata alla presidenza con un margine accresciuto in numero e in entusiasmo.
Confermati anche in questa occasione in una platea in cui spiccava un compatto
plotone di donne sedute l’una accanto all’altra, tutte vestite di bianco
esattamente nella stessa tinta che la Pelosi aveva scelto per andarsi a sedere
alle spalle di Trump.
Una “mostra” efficace, che però Trump
ha saputo in parte ridimensionare presentando anche lui esemplari del gentil
sesso meritevoli per tenacia e coraggio personale in appoggio ai sentimenti femministi
e ad altri, compresa la lotta contro le discriminazioni razziali. Egli ha
costretto così l’“armata bianca” ad applaudire diverse volte se non lui, i suoi
ospiti. L’ondata femminile democratica, che si è però configurata anche come
accentuato spostamento a sinistra, ha permesso al presidente di sparare una bordata
finale contro il “socialismo”, partendo dal disastro economico del Venezuela e
pronunciando il suo jamais a qualsiasi
“socialistizzazione” degli Stati Uniti. Il resto della allocuzione
presidenziale è stato dedicato all’obiettivo principale: mantenere la compattezza
all’interno del Partito repubblicano, scongiurarne le defezioni. E in questo
Trump pare riuscito alla perfezione. Le critiche di alcuni esponenti del Gop
non hanno mancato di esprimere a singole decisioni o intenzioni della Casa
Bianca sono sempre state limitate e spesso segnano una continuità con la
strategia con cui Trump riuscì non solo a conquistare la nomination repubblicana
per la Casa Bianca, ma anche a dominarlo usando quel potere.
Durante il discorso sullo Stato
dell’Unione i repubblicani applaudivano in tutte le “occasioni giuste”, si alzavano
in piedi spesso, nascondevano la scarsità di entusiasmo con una disciplina
scaturita dall’approssimarsi di nuove elezioni. Tre erano gli argomenti più attesi:
il muro, la politica estera, le minacce giudiziarie. Trump ha dedicato a tutti
e tre scarso tempo. Le inchieste sul conto suo e di molti suoi collaboratori le
ha definite “ridicole”. Il muro egli lo ha difeso parlandone poco e soprattutto
astenendosi dal reiterare richieste di urgenza per il finanziamento del
programma, chiudendo momentaneamente in un cassetto quella polemica che pure ha
appena causato 35 giorni di “chiusura” del governo. Quanto alla politica
estera, invece di scendere a polemizzare sulle singole iniziative, Trump ha intonato
un canto molto patriottico sulla “unicità”, perfezione e imbattibilità dell’America,
tanto potente da potersi permettere iniziative di distensione con i talebani in
Afghanistan e il dittatore militarista nella Corea del Nord, di giustificare il
parziale ritiro delle truppe dalla Siria e dall’Irak, minacciare ulteriori
iniziative contro l’Iran e sanzioni contro lo sfasciato Venezuela. Niente di
nuovo, nessuna concessione, nessun eccesso polemico. Se non la ipotetica resurrezione
del socialismo dopo la fine della Guerra Fredda. Che Trump non ha quasi
nominato: un trionfo per l’America di cui non può appropriarsi né vantarsi.