Alberto Pasolini Zanelli
Di rado sono state tanto fitte e “saporite”
le notizie dal fronte interno americano, dalla sua massima estensione
planetaria e imperiale fino alle “sparatorie” fra i diversi palazzi del potere
a Washington. Le novità si succedono di ora in ora, senza lasciare quasi il
tempo per prenderle in considerazione. Le ultime novità riguardano naturalmente
Donald Trump, che in quasi tutti i continenti della terra dà l’impressione di
impegnarsi a fondo per smontare tutte le alleanze e gli equilibri costruiti
dall’America attorno all’America nelle stesse ore in cui sedici degli Stati
dell’Unione lanciano contro di lui una campagna pacifica ma radicale,
accusandolo di stare violando la Costituzione e indirettamente preparando
contro di lui un “processo” che si chiama impeachment.
Il punto di contrasto riguarda chi secondo la Costituzione Usa abbia il potere
di dichiarare gli stati di emergenza: il presidente o il Congresso. Quindici dei
sedici Stati “dissidenti” hanno governatori democratici, uno solo è a direzione
repubblicana: il Maryland, alle porte di Washington. Il testo è stato preparato
dai magistrati di San Francisco, la città più “liberal” della California
che è lo Stato più liberal dell’America. L’accusa è “aperta violazione dei
principii della separazione dei poteri radicato nella Costituzione degli Stati
Uniti” e riguarda, naturalmente, la serie di decreti di emergenza promulgati al
fine di “demolire” l’opposizione crescente alla costruzione del Muro che
dovrebbe bloccare l’immigrazione dal Messico e, attraverso il Messico, dall’intera
America Latina.
Contemporaneamente gli inviati
della Casa Bianca sono in Europa con il programma di allentare i legami fra l’America
e gli alleati della Nato con una serie di decisioni unilaterali, cioè dell’uscita
di Washington dai trattati compilati assieme con l’Iran e altri impegni che
includono il rimpatrio, anch’esso unilateralmente deciso, da zone di guerra
come l’Irak e l’Afghanistan. Tutte parti della visione politica di Trump, che è
stata illustrata agli europei in due separati “vertici” da esponenti dell’Amministrazione,
incluso per la prima volta il vicepresidente Pence. Per la prima volta il
saluto portato dal presidente ai capi di governo alleati è stato accolto,
invece che dal solito applauso, da un silenzio di gelo. Contemporaneamente Trump
prepara un nuovo vertice con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, si raffreddano
i rapporti con la Russia. Quest’ultima si sta riavvicinando alla Cina, il che
riporterebbe indietro la costellazione politico-militare mondiale, annullando
le modifiche apportate pazientemente da altri presidenti Usa, da Nixon a Bush,
attraverso Reagan. L’ultimo segnale è il piede messo da Pechino nell’Afghanistan,
evidentemente per cominciare a riempire il vuoto lasciato dall’America.
È dunque in atto, non più solo in
progetto, una ristrutturazione planetaria. “Volevamo cambiare l’America e
abbiamo cambiato il mondo”, le parole pronunciate da Reagan al termine del suo
ultimo mandato presidenziale erano qualcosa di diverso da una legittima
vanteria: erano il bilancio di un decennio dopo il quale nulla era rimasto come
prima. Gli anni Settanta si erano conclusi con due imperi ancora in lotta fra
loro in un sussulto di Guerra Fredda che vedevano l’Unione Sovietica al culmine
della sua espansione geopolitica e l’America in piena sindrome vietnamita. Gli anni
Ottanta terminavano invece non solo con la ritrovata fiducia in se stesso del
colosso nordamericano, ma con l’implosione dell’impero sovietico e la conseguente
fine della Guerra Fredda. Chiusa l’età del bipolarismo, si apriva l’era del
predominio statunitense, cominciato con la caduta di un muro (quello di Berlino)
e minacciato con il crollo delle Torri Gemelle a New York. Un decennio
preparato e reso possibile dalla politica ferma e coraggiosa di due presidenti
repubblicani ma poi gestita da un presidente democratico, con risultati
contraddittori come l’improvvido sostegno a movimenti fondamentalisti islamici.
Erano i primi accenni di un nuovo
unilateralismo che riguardava, fino alla conclusione della presidenza Obama,
scenari geopolitici, economici e perfino militari ma di dimensioni marginali. Con
il tempo però cose più importanti sono cambiate: mentre si diffonde a
Washington l’allarme per una “resurrezione dell’impero di Mosca” per mano di un
ex agente del Kgb come Putin, la Cina si configura come un colosso economico
dall’imprevedibile peso geopolitico e si prospettano inedite alleanze, che in
altri tempi l’America sapeva gestire o almeno presiedere ma che oggi spuntano,
più o meno credibili che la Casa Bianca dà l’impressione di voler affrettare al
fine di diminuire il ruolo dei propri alleati e di restaurare il tempo degli “imperi”.
In un ritorno delle relazioni internazionali all’antico assetto multipolare. Molto,
anche se non tutto, dipenderà dagli sviluppi della politica interna
statunitense e non tanto dall’innalzamento del muro di frontiera con il Messico,
ma dalle sorti della guerriglia dei due poteri di Washington.