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«Mai spiegare e mai chiedere scusa». Il populista a lezione


C’ era una volta la retorica, quell’insieme di artifici utili a costruire discorsi argomentativi o, come scriveva anni fa Umberto Eco sulla scorta di Aristotele, discorsi deliberativi. Tra questi, i discorsi politici, cioè quelli che, secondo Eco, si propongono di «convincere l’uditorio sulla necessità o il rischio di fare o non fare una certa cosa che attiene all’avvenire della comunità». Il discorso deliberativo si oppone al discorso che Aristotele definiva «epidittico», essenzialmente il messaggio pubblicitario, in lode o in biasimo di qualcuno o qualcosa. Ebbene, chissà che cosa direbbe il filosofo greco se sapesse che il discorso politico è stato fagocitato dal discorso epidittico, tipico della comunicazione social.

A dimostrazione che l’uso brutale della lingua è, più che in passato, lo strumento vincente della demagogia al potere, si moltiplicano i saggi sulla comunicazione politica. Lo segnalava ieri su Le Monde Idées il saggista e scrittore Frédéric Joignot citando due pubblicazioni sulla «retorica» del populismo messa in atto dal presidente americano e dal suo twittare compulsivamente tutto ciò che gli passa per la testa. Il primo libro è La langue de Trump (La lingua di Trump) della traduttrice francese Bérengère Viennot; il secondo si intitola How Trump Thinks (Come pensa Trump) e si deve al giornalista britannico Peter Oborne e allo storico dei media Tom Roberts.

Il tutto si può tradurre in alcune brevi lezioni su come fare carriera politica grazie alla nuova retorica populista, che aiuta a rivolgersi direttamente al popolo solleticandone le «trippe» (Viennot) attraverso i social. Lezione numero 1: puntare sulla quantità e sommergere l’utente con una pioggia di tweet o di post indiscriminati: non spiegare niente, usare frasi lapidarie, slogan e interiezioni, pensieri binari, aggressivi, più simili a borborigmi, cioè a rumori gastrici, che a formulazioni sia pure banali. Lezione numero 2: servirsi di effetti grafici immediatamente riconoscibili: punti esclamativi in serie («!!!!!») per esprimere avversione, punti interrogativi a raffica («?????») per comunicare incredulità, caratteri maiuscoli per enfatizzare convinzione e rabbia («STRONG Border Security!» FORTE sicurezza alle frontiere!), virgolette («…») per sbeffeggiare allusivamente l’avversario. Lezione numero 3: alternare (un po’ «istericamente») trionfalismo e allarmismo: gli studiosi hanno rivelato una quantità abnorme di «WOW!» e del suo opposto «SAD!» nei messaggi trumpiani. Idem «great!» (favoloso) e il suo superlativo «greatest!». Ricorrenza zero per sintagmi tipo «mi dispiace», «mi scuso». Lezione numero 4: creare un proprio idioletto, cioè un linguaggio personale, fatto di parole limitate ma ripetute fino alla nausea (Salvini docet: «pacchia», «non mollo», «non prendo lezioni da nessuno», «un bacio…»). Non preoccuparsi mai della correttezza grammaticale o lessicale: si darà l’elettrizzante e rassicurante idea della sincerità e dell’immediatezza. È celebre l’incomprensibile «Despite the constant negative press covfefe» (ossia: malgrado la costante covfefe negativa della stampa) trasmesso dal presidente Usa il 31 maggio 2017. La lezione numero 5 è il grande contenitore delle precedenti: mostrarsi sempre sicuri di sé (l’IO è strabordante), turgidamente virili, pronti al disprezzo e all’insulto, allo scherno e al politicamente scorretto, diffondere false notizie (8.158 quelle di Trump contate fino al 20 gennaio dal «verificatore dei fatti» del Washington Post) e sempre ma sempre attaccare i media. Sono loro l’ostacolo maggiore alla trasmissione del rumore borborigmico.